MICHELE TANXU
Di Andrea Tanxu (1776-1841) e di Agostina Bianco Razzu (1793-1842), pertanto cugino di Pietro Vasa da parte di madre. Fratello del Muto, era nato in Li Colti nel 1820.
La famiglia dei Tanxu era abbastanza agiata. Andrea Tanxu aveva infatti casa e vigna nel paese di Aggius. Secondo la tradizione tipica dei pastori, però vi dimorava raramente, ad eccezione del mese di settembre quando rientrava ad Aggius per la vendemmia e per la festa del Rosario.
Normalmente la famiglia risiedeva nel loro stazzo di Bainzeddu, nella regione di Li Colti, non lontano dalla chiesa campestre di Sant’Antonio.
Vi è da rilevare il fatto che i Tanxu e i Mamia erano apparentati tra di loro e che vivevano da sempre in territori confinanti in amicizia e fratellanza. Ora, sapendo che i Tanxu erano parenti anche del Vasa, viene logico pensare che avrebbero potuto svolgere un ruolo di mediatori ed evitare così tanti lutti.
Tutto questo però solo sulla carta; nella realtà qualche tempo prima dell’inizio della faida, era successo che proprio Michele Tanxu, fratello del Muto, rimasto vedovo della prima moglie, si era risposato con una cugina di Pietro Vasa, trasferendo la sua residenza allo stazzo di Lu Naragheddu, vicino al cugino e rinsaldando ancora di più il loro vincolo di parentela. Questo fu probabilmente il motivo che lo spinse a prendere le difese del Vasa, quantunque fosse anche parente con i Mamia.
Uomo tosto e vigoroso, e dal temperamento energico, Michele Tanxu, dopo la morte del padre Andrea, aveva preso in mano le redini della famiglia, curandone in maniera egregia gli interessi economici, e prendendosi cura del fratello minore sordomuto. In quegli anni viveva in Li Colti, nello stazzo di Lu Caldu ‘rreu, assieme alla prima moglie, Isabella Addis, dalla quale aveva avuto due figlie: Maria Rosa e Agostina.
Era lui che si occupava di tutto quello che riguardava gli interessi familiari; dalle faccende ordinarie, come la cura della terra e del bestiame, a quelle straordinarie come quando, nel 1839, si presentò in Tribunale, a Tempio, per sollecitare la scarcerazione su cauzione del suocero Salvatore Antonio Addis Scriccia, arrestato con l’accusa di tentato omicidio, nei confronti dei fratelli Addis Melaju di Pitrischeddu (Aggius).
Nel bel mezzo di questa vita serena e idilliaca, nel 1847, gli venne però a mancare la moglie. Rispettò il tradizionale periodo di lutto di due anni e poi si risposò con una di Lu Naragheddu, Gavina Vasa, di molti anni più giovane di lui.
Quando maturarono le prime schermaglie tra il Vasa e i Pileri, Michele Tanxu si trovò quindi in prima fila, nella posizione di sostenitore del cugino; infatti non esitò ad incaricarsi personalmente di vendicarlo, dopo l’agguato del giorno di San Giuseppe.
Il Vasa era ancora convalescente, quando il Tanxu, tese l’agguato ai Mamia nel quale perse la vita. Era il fratello prediletto del Muto, l’unico in famiglia in grado di proteggerlo e capirlo, in quanto il Muto si esprimeva a monosillabi difficilmente comprensibili.
L’uccisione del fratello maggiore convinse anche Bastiano a prendere decisamente le parti del Vasa, che, intuendo la sua voglia di vendetta, si sostituì a Michele Tanxu, prendendo il Muto sotto la sua tutela e facendone il suo braccio armato, implacabile e preciso come il più fedele dei sicari.
SEBASTIANO TANXU
Soprannominato il Muto di Gallura. Era nato in Li Colti (Trinità d’Agultu e Vignola) nel 1827, sestogenito di otto figli naturali di Andrea e di Agostina Bianco “Razzu”.
Fu battezzato a Tempio, il 29 ottobre 1827. Il fatto che non sia stato battezzato nel luogo natìo, strano a prima vista, diventa comprensibile se si considera che gli abitanti delle campagne, per l’assistenza religiosa erano soliti rivolgersi, indifferentemente, a una o all’altra delle chiese esistenti nel territorio.
È il personaggio più importante nella storia narrata dal Costa, che lo presenta come un infallibile tiratore di fucile, belva implacabile nel perseguire la fazione opposta dei Mamia. Descritto in pratica come la mano armata, utilizzata dal cugino per inseguire i suoi turpi desideri di vendetta, nella realtà fu il classico coperchio delle pentole del diavolo, buono per tutte le occasioni per addossargli delitti mai compiuti, e scagionare i veri esecutori. Il Tanxu riassumeva tutte queste caratteristiche in maniera ottimale; tra l’altro, essendo sordomuto, non sempre poteva essere a cognizione di quello che si tramava ai suoi danni, e tantomeno scagionarsi personalmente a parole.
Sin dalla giovane età, visse da povero disgraziato infelice, evitato da tutti; basta pensare che i suoi non gli facevano nemmeno accudire il bestiame, a causa del suo carattere irascibile e violento; inoltre a causa della sua infermità non poteva sentire i richiami nè impartire ordini per un corretto governo degli armenti.
Secondo la tradizione, dal punto di vista fisico presentava una corporatura abbastanza minuta e smilza, capigliatura rossiccia, viso affilato e naso dal profilo inconfondibile. Nella sua giovinezza, visse quasi sempre a Li Colti; ad Aggius si recava solo nel mese di settembre, assieme a tutta la famiglia. Dopo la morte dei genitori pare non sia più ritornato in paese, vivendo sempre in campagna.
L’unico viaggio di una certa rilevanza fu quando, in compagnia di uno zio e di un altro coetaneo, si recò a Sennori, in una annata di particolare carestia, per transumare un branco di suini in un bosco ghiandifero. Vi è da sottolineare il fatto che le persone che lo conobbero personalmente, o che ebbero qualche rapporto con il Muto, oltre i parenti, furono pochissime.
Essendo sordomuto, non fu neanche convocato per la visita di leva. A proposito della sua infermità si potrebbe azzardare l’ipotesi che ci fosse qualche predisposizione ereditaria, nel casato della madre, i Bianco Razzu. Analizzandone le genealogie, si scopre che, tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del secolo scorso, nell’ambito dei discendenti di quel gruppo familiare si sono avuti almeno altri tre casi simili, più o meno recenti.
La vera tragedia del Muto fu però la carenza di affetti che lo colpì sin dall’adolescenza. Il 4 gennaio 1841, infatti morì il padre Andrea e, venti mesi dopo, il 2 ottobre 1842, la madre Agostina Bianco. Da allora visse oppresso dalla sorella Maria Rosa, arcigna e manesca, che lo riempiva di botte, e lo buttava fuori di casa, ogni qualvolta provava ad alzare la cresta; in questà facoltà era imitata dalla cognata, Maria Bianco, e dal di lei coniuge Michele Antonio Tanxu, che riversava nel fratello sordomuto tutte le frustrazioni represse che non riusciva a sfogare all’esterno della famiglia.
In questa situazione, l’unico punto di riferimento positivo per Bastiano era il fratello maggiore Michele, che rappresentava tutto quello che lui avrebbe voluto essere.
Dopo la morte di Michele, l’unica persona che si prese cura di lui fu il cugino Pietro Vasa, che lo portò con se durante gli anni della latitanza, nelle campagne di San Giuseppe di Cugurenza e San Gavino di Petra Maina. Quando il Vasa lo portò via, i suoi familiari si fecero il segno della croce, in quanto speravano di non rivederlo mai più.
Da allora quasi tutti gli omicidi perpetrati a danno dei Mamia furono attribuiti al Muto. Però almeno uno, quello forse più famoso, da documenti ufficiali pare non sia da attribuire al Tanxu: cioè quello del suo “mancato suocero” Antonio Stefano Pes, avvenuto la sera del 5 luglio 1857, nei pressi del suo stazzo di L’Avru, in località La Schina di Giagazzu (Viddalba).
Il Costa descrive l’avvenimento in maniera molto dettagliata: dai preparativi dell’agguato all’esecuzione dell’omicidio, fino a quando il vecchio Pes morente accusa il Muto, del suo assassinio.
In realtà dell’omicidio fu accusato un pastore di Nigolaeddu (stazzo presso Li Colti), Francesco Maria Carbini noto Brandincu, che fu catturato dai carabinieri il primo settembre 1857, accusato anche del tentato omicidio di un altro pastore suo confinante, Pietro Addis noto Monigu.
Il Carbini comparve davanti alla Corte d’Assise di Sassari il 28 novembre 1861, per essere giudicato sui due delitti attribuiti; riconosciuto colpevole per l’omicidio del Pes, fu condannato ai lavori forzati a vita. Con Regio Decreto di Grazia del 16 novembre 1873, la pena gli fu ridotta a trent’anni.
Il Muto ritornò a Li Colti nell’estate del 1857, dove però non si stabilì nella casa paterna, ma in un terreno adiacente dove si costruì un rozzo rifugio. Scomparve dopo qualche mese e nessuno seppe più nulla di lui.
Sulla fine del Muto, il Costa ricama una storia tragica, avvolgendo il tutto nel mistero e sciorinando ipotesi ben lontane dalla verità dei fatti. In realtà, alla fine di maggio del 1858, in località Santa Barbara, presso Li Colti, fu ucciso da Francesco Antonio Muretti, suo amico intimo, con il quale aveva condiviso i lunghi anni della faida e della latitanza.
Il Muto del quale Pietro Vasa sfruttando il suo odio per gli uccisori del fratello Michele, ne aveva fatto un sicario fedele e preciso, dopo la fine della faida era diventato un personaggio scomodo in tutti i sensi. Pertanto anche i suoi parenti avrebbero gradito una sua eliminazione. Dall’altra parte vi era Giovanni Antonio Spano noto Ciacciaredda (chiamato Giuseppe nel libro) che non avrebbe mai potuto coronare il suo sogno amoroso con Gavina (all’anagrafe Francesca Pes) fino a quando fosse rimasto in vita il Tanxu.
Alla uccisione del Muto collaborò anche un pastore di Viddalba Agostino Peru Mazzittoni, detto “lu Gregu”. Il Costa non fa il suo nome tuttavia è identificabile in uno dei tre uomini che “uscirono da uno dei crepacci di granito che sono alle falde di Cucurenza. Erano tutti armati di fucile, e col cappuccio tirato sugli occhi”.
Il ruolo determinante nell’epilogo della vicenda fu quello di Giovanni Antonio Spano “Ciacciaredda” , il quale si adoperò per l’omicidio del Muto con solerzia e abilità, promettendo al Macciaredda un salvacondotto in cambio della vita del Muto.
Dopo l’uccisione, il cadavere di Sebastiano fu sepolto nella zona di Littu di Zoccaru, a breve distanza dalla foce del Riu di Li Cossi. Al fine di nascondere ogni traccia, il tumulo, costituito da sabbia finissima, fu calpestato dal bestiame di un vicino ovile.
Il naso aquilino inconfondibile del Tanxu fu asportato dal resto del corpo e portato, come trofeo, a Giovanni Antonio Spano, al fine di dimostrargli che il Muto era stato definitivamente tolto di mezzo. Francesca Pes, non avrebbe mai acconsentito a seguire lo Spano essendo in vita il Muto, per timore di rappresaglie.
Secondo una tradizione orale esistente ancora oggi in L’Avru, la vista del solo naso non bastò a convincere lo Spano; pertanto i suoi uccisori, dopo due giorni disseppellirono il cadavere del Muto, e lo portarono all’incredulo Ciacciaredda. Il corpo dell’ucciso fu poi occultato in una pietraia nei pressi della strada che portava allo stazzo di Gambaidonna, non lontano da L’Avru. L’uccisione del Muto non causò altre inimicizie. I parenti non pensavano minimamente di vendicarlo, anzi, come si è detto, era diventato un personaggio scomodo da gestire e, per la propria e altrui tranquillità, erano ben felici di non averlo più fra i piedi.
Un mese dopo i parenti andarono dal parroco di Trinità d’Agultu, Giovanni Andrea Stangoni, per far celebrare una messa in suffragio dell’anima del Muto.
Il 24 giugno 1858 lo Stangoni scrisse l’atto conclusivo sull’esistenza di Sebastiano Tanxu annotando il fatto in una pagina del Liber Mortuorum della parrocchia di Aggius: “surdus atque mutus deficit ab ipsiusmet propinquis tamquam a vivis sublatus ad exequias celebrandas huic parochiae denunziatur. Celibis erat.
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