Biografie dei principali protagonisti


ANTONIO MAMIA

Antonio Addis Mamia, era nato nel 1795, in La Gjunchizza, nelle campagne di Vignola; figlio primogenito di Pietro Mamia e di Maria Maddalena Satta.
Il padre Pietro Mamia, soprannominato “Uccitta”, era un celebre bandito. Alcune sue imprese sono ricordate dall’Angius, in Casalis, che le racconta così: “Fu assediato un giorno nel suo ovile da circa 60 uomini delle parti nemiche, e da una compagnia di soldati venuti improvvisamente dalla parte di mare: tuttavia egli uscì fra loro, e senza essere offeso da alcuno de’ cento colpi che si fecero contro lui, nè patì altro danno che la perdita del bestiame sopra il quale si sfogò tutta la vendetta. Spedissi nuovamente contro lui una banda di soldati sotto gli ordini d’un animoso capitano, il quale quando vide scemare giornalmente in Vignola il numero de’ suoi soldati, andò a porsi in Agultu, luogo frequentato dallo stesso Mamia e abitato da’ suoi parenti. Quivi quattordici di lui cugini governati dal loro zio Andrea Tanxu, uomo ottuagenario e non pertanto così robusto e coraggioso come un uomo di 35 anni, poterono in tre diversi assalti uccidere non pochi soldati, e obbligare i superstiti a ritirarsi".
Grande razziatore di bestiame, Pietro Mamia, assieme ai fratelli Giacomo e Michele e alcuni componenti della famiglia Pileri, ai primi dell’800, fu protagonista di una sanguinosa inimicizia, prima contro i Malu Tortu e Bianco Lepori e, in seguito, contro gli Addis Mattola.
Assieme alle famiglie alleate dei Carbini Brandincu di Nigolaeddu, i Tirotto Mamia di Cascabraga e i Pirodda di La Paduledda aveva spadroneggiato, in mezza Gallura e Anglona, compiendo una quantità impressionante di azioni delittuose. Tra le altre “nobili professioni”, esercitava l’attività di contrabbandiere con la vicina Corsica, dove si recava spesso per vendere il bestiame e altre derrate, acquisite fraudolentemente. Ad Ajaccio ebbe modo di incontrare alcuni patrioti sardi, seguaci di Giovanni Maria Angioy, rifugiatisi in Corsica dopo il fallimento dei moti rivoluzionari di fine secolo XVIII. In particolare incontrò il notaio cagliaritano Francesco Cilocco e il sacerdote di Torralba Francesco Sanna Corda che progettavano di invadere la Sardegna, cacciare i Savoia e costituire un libero stato repubblicano, ispirato agli ideali della Rivoluzione Francese: “libertè, egalitè e fraternitè.
Il Mamia non solo aderì al loro progetto, ma promise un cospicuo numero di persone armate, che avrebbero dato man forte nel momento in cui fosse cominciata la rivoluzione. In realtà, sin dai primi approcci, progettava il più infame tradimento. Infatti, segretamente, prese accordi con il giudice Lomellini, comandante della piazza di Tempio, promettendo loro le teste dei congiurati, in cambio dell’impunità per lui e altri quattordici suoi parenti, ricercati vivi o morti per i più feroci reati contro il patrimonio e contro le persone.
Contemporaneamente continuò a frequentare gli angioiani, allo scopo di seguirne le azioni e informare il Lomellini.
I rivoluzionari sbarcarono nella piccola cala vignolese di La Gruzitta (Trinità d’Agultu e Vignola) il 13 giugno 1802; al posto dei duecento uomini armati fino ai denti, promessi dal Mamia, trovarono solo quest’ultimo che si giustificò con banali scuse; nonostante questo imprevisto, con un’abile azione in contemporanea, riuscirono a conquistare le tre torri costiere della Gallura: Isola Rossa, Vignola e Longonsardo (attuale Santa Teresa Gallura).
Dopo pochi giorni però il Governo Sabaudo passato alla controffensiva, anche grazie all’aiuto determinante del Mamia, riuscì a venire a capo della situazione: il Sanna Corda fu ucciso in combattimento presso la torre di Longonsardo, il Cilocco, abbandonato e tradito, fu catturato nei pressi di uno stazzo nelle campagne di Aglientu, portato a Sassari, fu torturato e in seguito impiccato.
Uguale sorte seguirono i suoi compagni d’avventura e due pastori vignolesi, Giovanni Battino e Francesco Frau, catturati nei pressi della torre di Santa Teresa. Pietro Mamia, assieme ai suoi scellerati compagni, per i servizi resi al Regno di Savoia, ritornò ad essere un uomo libero, senza più alcun conto da regolare con la giustizia.
Antonio Mamia non seguì le orme paterne; si racconta fosse un uomo savio e tranquillo. Sposò una sua parente che aveva lo stesso nome della madre: Maddalena Pes Satta. Dal loro matrimonio, all’epoca dell’inizio della faida, erano già nati sei figli: Giacomo (1831), il maggiore che, sin dai primi attriti con i Vasa si diede alla latitanza; Mariangela (1833), che dopo la rottura con Pietro Vasa sposò Giovanni Battista Spezzigu “Coxiganu”; Michele (1835), Anton Pietro (1838) deceduto per cause naturali all’età di vent’anni nel 1858, Leonardo (1841) e Pasqua (1847) che, a quattordici anni, nel 1861, sposò un non meglio identificato Pasquale Paggiolu.
Come si è già detto, Antonio Mamia era una persona savia e giudiziosa, spesso convocato come rasgiunanti nelle controversie fra pastori; buon amministratore delle sue proprietà di Vignola, in età matura fu anche consigliere comunale ad Aggius, e per un ridottissimo lasso di tempo fu anche vicesindaco.
Oltre allo stazzo natio di La Gjunchizza, che fu venduto subito dopo lo scoppio della faida, era proprietario di altri terreni confinanti: Li Pentimi, Pulchili e Larinzeddu; possedeva anche una casa in Aggius, avuta per eredità paterna, e dove risiedeva quasi stabilmente a partire dal 1840.
Essendo di indole naturalmente pacifica, la sua aspirazione era quella di trascorrere una vita serena e tranquilla, memore dei disagi avvenuti in famiglia grazie alle gesta di suo padre.
Tuttavia le sue aspirazioni si dovettero scontrare con la situazione del tempo. In gioventù si ritrovò nel bel mezzo di una faida tra la sua famiglia e quelle dei Carta e Muntoni. Dopo circa quattro anni di lotta, nel 1837, furono celebrate ufficialmente le paci; nonostante questo l’inimicizia e gli attentati proseguirono per diverso tempo.
Infatti, il 7 maggio 1838, un anno dopo le cosiddette paci, Antonio Mamia fu fatto oggetto di un agguato armato, dalla quale riuscì a scamparla. Mentre di primo mattino, in compagnia del padre Pietro, si recava da Aggius al suo stazzo di Vignola, furono fatti oggetto di alcune fucilate che non procurarono loro grandi danni.
Il fatto eccezionale, almeno per l'epoca fu però il seguito della vicenda: i Mamia invece di farsi giustizia da soli, denunciarono il fatto all’autorità competente, indicando come possibili autori dell’attentato elementi della famiglia rivale. I tempi erano cambiati anche per loro. Questo fatto però può servire a dare una misura della personalità del Mamia. Ovviamente in questo modo di comportarsi non poteva essere estranea l’esperienza del famoso genitore. Pietro Mamia, dopo la conclusione della vicenda del Cilocco e Sanna Corda, e sua conseguente riabilitazione, aveva abbandonato definitivamente la carriera di fuorilegge, e viveva in maniera totalmente retta, nel timore di precipitare nuovamente nel baratro delinquenziale dal quale era faticosamente uscito.
Tale modo di essere non poteva non influenzare il comportamento di Antonio Mamia che, in effetti, nella vicenda con i Vasa, cercò sempre di sistemare le questioni in maniera pacifica; solo la morte del figlio quindicenne lo convinse a rompere gli indugi e ad imboccare la strada della vendetta armata. Da rilevare che, quando fu ucciso il giovane Michele, la moglie di Antonio Mamia, Maddalena Satta, era in attesa di un bambino, che nacque qualche mese dopo, alla fine del 1850, e gli fu imposto, come da consuetudine, il nome dell’appena defunto Michele.
Cinque giorni dopo l’assassino del figlio Michele, il 20 agosto 1850, Antonio Mamia si recò a Li Colti, per chiamare a raccolta i suoi parenti, ivi residenti: i Mamia Malu, soprannominati Verri, i Fois “Taldìu”, i Peru “Cujareddu” e naturalmente i Pileri. Dopo i soliti convenevoli di comune accordo fu individuato il bersaglio da colpire: Caterina Bianco Razzu, madre di Pietro Vasa. Fu incaricato dell’esecuzione Salvatore Pileri, genero della vittima.
Era la fine della vita tranquilla da sempe desiderata. Da allora con l’inizio della mattanza, ad ogni avvenimento delittuoso a carico dei Vasa, era sempre ricercato dalla Giustizia, in quanto sospettato di esservi implicato, come esecutore o mandante, o come “persona informata sui fatti”.
Non bastasse quello, viveva sempre nel timore di qualche agguato, in quanto sapeva benissimo di essere considerato come il bersaglio più importante, dalla fazione avversa. In mezzo a tanto odio, riuscì però a salvaguardarsi alacremente, fino a quel tragico mattino del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, quando giunse anche per lui il tragico epilogo della sua vita terrena.
Il Mamia fu ucciso, in un viottolo adiacente lo stazzo Nigola Spano, tra Aggius e Tempio. All’agguato pare avesse partecipato un nutrito numero di elementi del clan avverso, fra i quali lo stesso Pietro Vasa, che riteneva di vitale importanza eliminare il mancato suocero, in quanto senza la sua autorità di capo riconosciuto della fazione dei Mamia, i suoi componenti senza più una guida avrebbero abbandonato i propositi bellicosi.
Si racconta che la sera stessa del suo omicidio, ci fu una grande festa, nello stazzo dei Vasa, nel cui piazzale si contarono almeno ottanta cavalli.
Dopo l’uccisione del Mamia, la moglie Maddalena Satta, si risposò con un suo cugino, Bartolomeo Pes.
Il posto del Mamia, come capo fazione, venne preso dal cugino Giovanni Michele Pileri, di Trinità d’Agultu che ritornò nel suo luogo natìo, dopo alcuni anni di latitanza, nella zona di Monti di Mola (Arzachena), in seguito alla chiamata da parte dell’Intendente Generale Raimondo Orrù, per dirimere la controversia, ed arrivare finalmente alle paci, celebrate a Tempio nel 1856.

PIETRO VASA
Era nato in Lu Naragheddu il 23 gennaio 1816, da Francesco Vasa e Caterina Bianco “Razzu”.
Viene descritto dal Costa come persona arrogante e permalosa. La tradizione orale parla di lui come di una persona irriducibile e caparbia, fino all’inverosimile; tale comportamento lo condurrà fino all’autolesionismo, facendo sprofondare lui e la sua famiglia, in un baratro senza fine. In genere è ritenuto il principale responsabile dell’origine della faida. Difficile pensare a Pietro Vasa come una vittima delle circostanze avverse, però probabilmente non furono tutte sue le colpe. Era semplicemente un personaggio, inserito nella società di quel periodo, perfettamente in linea con le consuetudini e le tradizioni tipiche del mondo agropastorale della Gallura, che in fondo imponevano un certo tipo di comportamento, legato a vecchi codici non scritti, ma da sempre conosciuti e rispettati da tutti.
Al riguardo vi è da ricordare che, secondo le consuetudini del tempo, dopo lo scampato pericolo susseguente all’attentato del 19 marzo, per la grazia ricevuta, elargì la somma di circa 48 scudi da destinare alla celebrazione annuale di una Messa di ringraziamento a San Giuseppe.
Fisicamente era di statura non eccelsa, di carattere facilmente irritabile, ma talvolta incline all’umorismo, che lo portava ad essere anche simpatico, nei rapporti con l’altro sesso.
Incominciò a frequentare la casa dei Mamia intorno al 1846, quando accompagnò un suo carissimo amico, tale Martino Muzzigoni “Salitu”, di Badesi, che doveva acquistare (come poi fece) un appezzamento di terreno di Antonio Mamia, nella zona di Li Colti.
Con la fidanzata, Mariangela Mamia, aveva in comune poche cose a cominciare dall’età: ben diciasette anni di differenza, forse un po troppi. Sicuramente al Vasa non interessavano più di tanto, sia la fidanzata, sia i rapporti col suocero Antonio Mamia, visto che nonostante il parere anche del tribunale dei “rasgiunanti”, non esitò a mandare all’aria il fidanzamento e tutto quello che vi era collegato.
Accade infatti, dopo che per ben due volte il consiglio dei rasgiunanti, gli diede torto, che acconsentì, nonostante tutto, a sposare Mariangela, nella chiesa campestre di San Pietro di Rudas, a metà strada tra Trinità d’Agultu ed Aggius. Ma il giorno fissato per la cerimonia si rese irreperibile.
Tuttavia il suo problema più grosso non erano i rapporti con i Mamia, ma quelli con il cognato Salvatore Pileri, che aveva sposato la sorella Giovanna Angela, “presa a fuggjitura”, e con il quale doveva convivere e, soprattutto, dividere i suoi possedimenti.
Il Pileri era una vera e propria spina nel fianco per il Vasa; nonostante avesse sposato la sorella di Pietro, non fu mai accettato in famiglia. Alla richiesta del Mamia di fare la pace con i Pileri prima del matrimonio con Mariangiola, il Vasa oppose un netto rifiuto; secondo il suo modo di vedere le cose, non poteva cacciare il Pileri dalla finestra di casa sua, per poi farlo rientrare dalla porta principale, solo perchè era parente della sua promessa sposa. Per cui vennero a scontrarsi l’orgoglio e la testardaggine del Vasa con l’orgoglio e la voglia di vivere in pace del Mamia, sentimenti in quest’ultimo amplificati dal fatto che, secondo la tradizione del tempo, era convinto di avere ragione, in quanto fra i due era il più anziano.
Il Vasa, dopo le paci di Tempio, che decretarono la fine delle ostilità fra le due famiglie, si sposò, a Trinità d’Agultu il 26 aprile 1857, con Maria Pes, sua lontana parente, abitante nello stazzo di Li Cuzi (Viddalba). In casa dei genitori di costei (Paolo Pes e Maria Vittoria Peru) aveva trovato amicizia e protezione, durante la latitanza alla quale si era dato, subito dopo i primi fatti di sangue. Trovò anche l’amore, nonostante la differenza d’età fra i due: diciannove anni separavano infatti Pietro da sua moglie Maria. Dopo il matrimonio, i due novelli sposi vissero insieme per quasi due anni, alternando la residenza tra lo stazzo di Li Cuzi e quello del Vasa in Lu Naragheddu.
Ormai in pace con i Mamia, era però braccato dai carabinieri, per le storie del passato e soprattutto perché istigati da Giovanni Antonio Ciacciaredda, il quale aveva capito che, per la sua futura tranquillità era necessario eliminare i due principali ostacoli: Pietro Vasa e suo cugino Sebastiano Tanxu, il Muto.
Dal suo matrimonio, il Vasa non lasciò discendenti: un figlio maschio, Francesco, morì all’età di due anni, mentre una femmina, nata dopo la sua morte, e alla quale era stato posto il nome di Pietrina, in memoria del padre, morì anch’essa in tenera età.
Maria Pes, dopo qualche anno, nel 1865, si risposò con Pancrazio Lepori di Codarruina. Rimasta ancora vedova contrasse un altro matrimonio con Giuseppe Andrea Stangoni, di Badesi. Morì, nello stazzo di Gjuncana (Viddalba) presso alcuni parenti, nel mese di luglio 1891.
Nel libro del Costa si accenna alla cattura del Vasa, avvenuta in circostanze piuttosto strane. La realtà fu che Giovanni Antonio Spano Ciacciaredda, dopo l’uccisione del Muto, per completare l’opera, come detto poc’anzi, doveva far fuori anche il Vasa. Presi accordi con i Reali Carabinieri in una fredda mattina di febbraio, organizzò un agguato, circondando la casa dove abitava il Vasa. Pietro riuscì a rompere l’accerchiamento e si diresse verso gli stazzi di La Paduledda, dove risiedevano alcuni suoi amici e parenti. Il Ciacciaredda, che conosceva bene le abitudini del Vasa, si appostò lungo la pista che conduceva a La Paduledda e riuscì a ferirlo, facendolo diventare facile preda per i carabinieri.
Pietro Vasa morì, il 18 marzo 1859 nel carcere di Tempio, come descritto nel libro. I suoi parenti affermano, tuttora, che il Vasa fu avvelenato in carcere. D’altra parte la sua ferita non dovrebbe essere stata così grave se riuscì ad arrivare a piedi sino a Tempio dal luogo dove fu catturato, distante circa 30 km


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