Anche quel pomeriggio comare Giuseppina, venne a casa nostra come era solita fare quasi tutti i giorni. Prendevano il caffè insieme, chiacchierando del più e del meno e così trascorrevano le ore più calde del pomeriggio...

Sedevano nell’antico sedile di pietra, sotto un folto pergolato, in cortile, tra gatti e galline che si rincorrevano come diavoli, quando non dormivano pigramente all’ombra.
In quel periodo il mio povero babbo era all’ospedale e l’unico svago della mamma era quello di chiacchierare, durante il pomeriggio, con comare Giuseppina, vecchia d’aspetto e magrissima, nativa di Abbasanta (in paese la chiamavano, appunto, s’abbasantèsa). Sorbivano il caffè versandolo da un’enorme caffettiera di ferro smaltato. Era piacevole stare in cortile dopo pranzo a scambiare alcune chiacchiere leggere.
Quel giorno era più caldo del solito (si era nel mese di luglio); comare Giuseppina arrivò ansando e imprecando contro l‘afa che, diceva, non le permetteva neppure di respirare.
«Venga! Venga!» le disse mia madre affacciandosi all’uscio. Comare Giuseppina arrivò scotendo la lunghissima gonna che toccava terra. Sedette nell’antico sedile e chiese a mia madre se fosse pronto il caffè. Dall’interno della cucina mia madre rispose che la caffettiera era già sul fuoco. Le mani in grembo, lo sguardo piccolo e volpino, l’espressione vivace e curiosa, comare aspettava. Finalmente la deliziosa bevanda arrivò.
Quello del caffè era un rito solenne che si rinnovava ogni volta con piacere e allo stesso tempo con gravità, quasi si trattasse di un rito sacro.Cominciarono a sorbire la profumata bevanda quando a un tratto si sentì gridare:
«Signora!»
«Sente comare? C’è gente!»
Mia madre andò a vedere chi fosse. La si udì discutere con animazione. Poi ritornò, borbottando.
«Giustizia dda crùsciada! (giustizia la perseguiti). Era una brùscia (strega) che voleva indovinarmi –disse- ma come l’ha vista la strada! Eh, ci manca solo che mi faccia indovinare!»
Comare però era curiosa, voleva vedere e ascoltare, sentire parole magiche, entrare nel mondo arcano che le procurava un vago timore e, insieme, un sottile piacere. Tanto fece e tanto disse che alla fine persuase mia madre a richiamare l’indovina che stava scomparendo lungo la discesa del Carmine, verso piazza Frontera. Richiamata, ella si affrettò a ritornare sui suoi passi ed entrò in casa. Una lunghissima gonna variopinta le scendeva fino ai piedi. Alle orecchie enormi orecchini incorniciavano un volto enigmatico e fiero che evocava lontane gesta di eroi orientali e mori di Spagna.
Fu invitata a sedere e le fu offerto il caffè. La zingara lo bevve lentamente poi volle leggere la mano a mia madre che, forse per vergogna, forse per superstizioso timore e memore degli ammonimenti di monsignor Diana riguardo alle superstizioni tanto radicate a Villacidro, non voleva accettare di sottoporsi a quell’operazione.
«Dai, comare, fatevi indovinare!» stuzzicava suadente comare Giuseppina, e alla fine mia madre si lasciò convincere.
La zingara divenne straordinariamente seria e cominciò ad osservare le linee della mano. Un sorriso rasserenante le apparve poi in volto.
«Buona donna –disse- vi attende una grande fortuna sene saprete approfittare. Entro ventiquattro ore cercate in mezzo a quel muro (e indicò il vecchio muro di cucina che avrà avuto almeno cent’anni, grossissimo, tutto gobbe e sporgenze) e lì troverete la vostra fortuna!»
Non disse altro. Ringraziò per il caffè. Mia madre rimase sconcertata, mentre comare Giuseppina parve piuttosto divertita e voluttuosamente soddisfatta. Alla zingara fu data qualche moneta che lei prontamente celò in una delle innumerevoli pieghe della gonna. Uscita dal cortiletto, scomparve nella strada assolata.
«Giustizia dda crùsciada! –commentò mia madre- e chi potrebbe credere a una cosa simile? E poi…abbattere il muro…in ventiquattro ore…sono cose diaboliche!» e si tracciò un rapido segno di croce.
Passarono alcuni anni. Il babbo era tornato dall’ospedale. In casa entrarono dei soldi e si decise di ammodernare la vecchia casa: era urgente abbattere i vecchi muri gobbi storti e rifare il tetto.
Il muratore stava demolendo il vecchio muro di cucina quando a un tratto lo si vide chinarsi e raccogliere qualcosa che rigirava tra le mani, scotendo pensosamente il capo.

Chiamò mio padre e gli mostrò lo strano oggetto trovato in mezzo alle pietre del muro: si trattava di un blocco di pietra, fatto a forma di brocca, cavo all’interno.
E l’interno era pieno di carbone.
«Eh! –disse ziu Silviu- si vede che non era destinato né a me né a voi!»
Era il tesoro della zingara.